Antonella La Frazia

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Antonella La Frazia

Antonella La Frazia, nasce a San Giovanni Rotondo (FG) il 20 settembre 1966, da dove presto si trasferisce per ragioni lavorative del padre. Si trova a frequentare la scuola elementare a Montella (AV). Già da allora si nota la sua propensione per la scrittura e la poesia in particolare, nei suoi primi semplici versi e nel suo abbozzo di romanzo, scritto all’età di circa dodici anni. Finite le scuole dell’obbligo si trasferisce nuovamente. Va a San Giorgio del Sannio (BN), dove vive tutt’ora. Frequenta le scuole superiori nella vicina Benevento. Durante questi anni continua a scrivere poesie e racconti, da leggere agli amici. A ventuno anni si sposa, ma a seguito della morte della sua prima figlia e di altri gravi dolori smette di scrivere, quasi dimenticandosene. Ricomincia a scrivere, dopo una dolorosa ricerca di sé. Nel  2016 pubblica la sua prima raccolta poetica “Donne vicoli e fuoco (Viaggio fra i vicoli dell’animo femminile) a cui segue nel maggio 2017 “E come la Fenice …” e nel luglio 2018 “Donne senza ali” in questo periodo raccoglie numerosi premi e le sue poesie vengono pubblicate in molte antologie.

 

Da “I Veli Delle Donne”

L’aurora si perse negli occhi di Giada a sciogliersi in rivoli di lacrime.

Restare lì inerme a sfogliare il passato, i ricordi, come frecce scoccate dall’arco, la colpivano allo stomaco, facendole provare un dolore fisico.

Cosa restava dei giorni della sua infanzia ora che anche lei se ne era andata?

Sua nonna, la donna che l’aveva cresciuta e le aveva tramandato conoscenze antiche che pochi ancora ricordavano, insieme a doti che molti non capivano, era stata tutto il suo mondo e ora non c’era più.

Sprofondò nei cuscini del vecchio divano di tessuto damascato rosso. In quella casa dove il tempo era fermo da anni e si respirava la magia di giorni lontani.

Il suo sguardo si posò sulle bambole di porcellana vestite di seta e trine, custodite nella credenza di legno scuro, scivolando poi lentamente sull’ingiallita carta da parati a fiori.

Osservò le tende di tessuto pesante color crema, legate con un gran fiocco di raso rosso che era  il colore preferito da sua nonna e anche il suo.

Nel drappeggio modellato con cura, le sembrava di rivedere le mani di lei che sicure rincorrevano le pieghe per dare la giusta forma.

Al centro della stanza troneggiava il tavolo rotondo con un unico grande piede centrale interamente intarsiato e quattro sedie rivestite anch’esse di damascato rosso come il divano.

olo ora si rendeva conto di quanto fosse buia quella stanza, così piena di cose, di mobili scuri ricoperti di oggetti e ninnoli; così tanti ma tutti sistemati in un loro ordine scrupoloso.

Amava quella stanza dove passava le ore più calde dei pomeriggi estivi. Quella stanza era la sua tana, il suo rifugio. Era il posto dove poter sognare e dove d’inverno, accanto al fuoco che danzava nel grande camino, raccontarsi le storie o solo come era andata la giornata.

Era il luogo dove guardare le foto ingiallite in bianco e nero del nonno e dei ricordi di gioventù della nonna.

D’un tratto la sua attenzione fu carpita da un qualcosa simile ad un soffio, ad  una nuvola alle sue spalle ed eccola, la sua morbida e nera amica Sofy, una gatta che aveva raccolto per strada.

Sofy era salita sul divano e le si era strusciata addosso lentamente, i suoi dolci brusii e le sue fusa, parevano volerle parlare.

I loro sguardi s’incrociarono, si fermarono un istante, in un complice incontro di due cuori feriti.

Lo sai, nonna non c’è più.” Le disse.

Lo so che puoi capirmi piccola, lo so. Vai, fai venire Terry, vi voglio con me.

La gattina scese velocemente dal divano e uscì dalla stanza, per tornare dopo pochi minuti in compagnia di un cagnolino simpatico, un piccolo meticcio bianco e nero frutto di chissà quanti strani incroci, un altro figlio della strada.

Senza parole si compresero, i due piccoli amici andarono ad accucciarsi accanto a lei sul divano. Loro la capivano, come ogni animale d’altronde.

Già da piccola il suo rapporto con gli animali era stato molto particolare. Quello era il dono che le aveva fatto la nonna – anche lei era così – anche lei parlava con gli animali.

Spesso nelle loro passeggiate in campagna si divertivano a farsi accompagnare da cani e gatti randagi.

Giada ripensò all’infanzia con la nonna, che le era stata sempre accanto cercando di proteggerla; uno scialle per il riparo dal freddo e anche dal dolore.

Il dolore più grande era stato per Giada, proprio la vita da cui nessuno poteva proteggerla, ma ciò l’aveva resa forte e indipendente.

Il suo passato era una pietra sul cuore, sempre fu considerata una bimba triste.

Sua madre sempre fra il letto e il divano, in quella misera stanza grigia e senz’aria. Sua madre donna sola e fragile, la depressione, l’alcool.

Rimaneva impresso nella sua mente l’odore acre di sudore, di sporco, di vomito, più di ogni altra cosa, anche più della fame e del freddo.

Era lei a dover preparare il cibo per sé e per sua madre, era lei che doveva occuparsi della casa e grazie ad una vicina che le aiutava, riuscivano a sopravvivere con la misera pensione che sua madre percepiva per la sua depressione.

Giada, piccola donna, che passava la notte a vegliare sua madre, ad accompagnarla in bagno a vomitare, a pulire il suo vomito quando non riusciva a farla alzare in tempo.

Giada piccola eroina esausta che la mattina non aveva la forza di alzarsi per andare a scuola.

Poi quel giorno di sirene spiegate, d’ambulanze, di corse all’ospedale. Il sangue sul pavimento e sul suo vestitino.

Nella sua mente, Giada rivedeva quei momenti.

Ora le era tutto più chiaro di quando era bambina ed era ancora più doloroso, ora che capiva bene cosa significasse la parola suicidio.

Sua madre si era tagliata le vene e da sempre a quel pensiero, Giada provava una pungente rabbia mista a rancore per quell’abbandono. Specie di sera, i ricordi si mescolavano al dolore, come in un vortice e la tristezza le carezzava i capelli e per curare il suo cuore aveva preso a scrivere poesie.

Un giorno nella sua vita però, era arrivato l’arcobaleno, un  raggio di sole di quelli capaci di squarciare le nubi.

Quel giorno un angelo biondo era venuto a liberarla da quella vita, da quella casa-famiglia dove era stata accolta dopo la morte di sua madre, ma dove lei si sentiva sola, diversa.

Il suo raggio di sole, la nonna, la prese fra le braccia, la strinse a sé; il primo momento di calore che lei ricordasse nella sua giovane vita, il primo gesto d’affetto senza parole.

A volte non ci sono parole, non si devono cercare, bisogna cercare solo braccia dove nascondersi e occhi con cui sospirare.

Lei era venuta e l’aveva portata  con sé, in un mondo che non conosceva, dove non c’erano pareti scure e i rumori assordanti della città, dove c’era aria, spazio, profumo di panni stesi al sole, calore di un camino, di un letto, di una tisana calda fatta con amore, amore che lei sentiva per la prima volta.

Così sua nonna le aveva curato l’anima.

Giada aveva scoperto quel mondo, quello che sarebbe diventato il suo mondo, solo suo e di sua nonna, che con lei non aveva in comune solo il nome.